Ogni giorno portiamo con noi, sul posto di lavoro, un carico di emozioni, positive e negative; portiamo con noi anche delle tensioni, che sono probabilmente la vera cause di quelle emozioni, e per tensione intendo la percezione di una differenza tra come le cose funzionano e come riteniamo che potrebbero funzionare (e quindi non ha una connotazione necessariamente negativa)
Quando siamo carichi di emozioni positive tendiamo a produrci in comportamenti empatici e di familiarità coi nostri colleghi, se invece prevalgono quelle negative tendiamo ad erigere un muro attorno a noi. La qualità totale delle relazioni che avremo dipenderà poi dalle sensazioni provate anche da chi ci sta intorno, e forse qualcuno riuscirà persino a superare qualche muro, magari proprio facendo leva sui buoni sentimenti.
Il lato empatico della nostra personalità è molto potente, può avere effetti notevoli nell’influenzare i comportamenti di chi ci sta vicino e, allo stesso tempo, noi stessi siamo dei recettori di “amore e cura” quando gli altri sanno sintonizzarsi sul nostro canale giusto. Ma è tutto oro quello che luccica? I sentimenti positivi sono in grado di migliorare in modo incondizionato la qualità delle interazioni per il bene dell’organizzazione? O rischiamo forse nell’incoraggiarli di aprire un varco ad un loro utilizzo controproducente?
La vita lavorativa ha dinamiche diverse da quella delle relazioni interpersonali pure, il lavoro nelle organizzazioni tradizionali è anche competizione e indirizzamento di obiettivi di successo personale che non sempre sono declinabili in modo collegiale, ma prevedono, ahimè spesso, qualche forma di prevaricazione degli uni sugli altri, nell’eterna lotta tesa a superare i nostri pari per avvicinarci al vertice di una piramide che è sempre più ristretta tanto più la si scala.
Provate allora rispondere a qualche domanda provocatoria.
“It’s an inappropriate use of
love and care to use love and care
to affect the outcomes of an organization” –
– David Allen –
“Costituisce uso improrio di amore e cura, l’ utilizzare amore e cura per orientare i risultati di un’organizzazione”
Si potrebbe pensare che ricorrere a queste leve in ufficio sia in fondo parte della nostra natura, e che umanizzi l’insieme di relazioni, altrimenti asettiche, che l’attività lavorativa prescrive, e questo è in parte vero; tuttavia i motivi per cui si tenda ad amplificare la connotazione uamana delle attività di relazione lavorativa paiono spesso essere altri.
Il problema principale è che le formule organizzative tradizionali non forniscono valvole di sfogo e risoluzione delle tensioni che accumuliamo al lavoro, queste tensioni sarebbero molto spesso valido input per cambiamenti organizzativi, ma essendo le organizzazioni progettate dall’alto e in modo generalmente non inclusivo, siamo privi degli strumenti per trasformare le nostre tensioni in cambiamenti che le annullino; così queste tensioni si sedimentano, si cronicizzano, fino a che ad un certo punto la nostra personalità si sdoppia, e la comunicazione inizia a svolgersi su due livelli: quello di “ciò che sentiamo di poter dire” e quello che “andrebbe realmente detto ma temiamo di dire apertamente”.
Questo doppio layer produce forme di comunicazione che fanno ricorso a stratagemmi anche inconsci per connotare il messaggio con “abbellimenti” per quanto possibile funzionali a far cogliere il “ciò che andrebbe realmente detto” senza “realmente dirlo”
Immaginate un contesto in cui questo non fosse necessario , immaginate di avere a disposizione un’organizzazione così chiara e così “azionabile” da potervi garantire completa trasparenza e dettaglio su ciò che l’azienda si aspetta da voi e ciò che voi possiate attendere da voi stessi e dai vostri colleghi. Immaginate poi che tutte queste informazioni non siano statiche ma possano cambiare, con processi inclusivi, ma rigorosi, sulla base delle tensioni sviluppate da ognuno di voi. Tutto questo è possibile con modelli di self management, e i risultati sono strabilianti. Tanto che a fine giornata il bilancio complessivo di aver introdotto regole differenti è comunque positivo per ciò che riguarda la serenità del clima aziendale e paradossalmente la cultura aziendale ne esce rinforzata. Certo magari si è resa un po’ asettica una mezz’oretta in più, ma solo per godersi poi piena libertà e serenità nei rapporti di sincera amicizia coi colleghi senza che questo possa celare secondi fini anche inconsci. E questo perchè differenti regole organizzative possono permettere di filtrare comportamenti poco virtuosi, anche inconsci e costringere tutti alla chiarezza nell’allineare comunicazione ad azione. Quando le regole sono condivise e comuni, e non possono essere aggirate, quello diventa infatti il comportamento più naturale ed efficiente.
Che grande differenza rispetto a vivere in un’eterna cultura del sospetto e del raggiro, dove la sincerità di ogni emozione non è mai certa, e tutti mostrano una facciata amichevole e politically correct, la cui effettiva sostanza rimane però imponderabile, poiché è effettivamente impossibile distinguere affetto genuino da affetto anche solo inconsciamente strumentale, almeno finchè il sospetto dell’ uno non sia vanificato inconfutabilmente dalla prova del suo opposto.